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Parte 1: Corso FAD sull'ipertensione


Ipertensione in condizioni speciali

release pubblicata il  28 settembre 2011 
da Roberto Minutolo

Figura 1 di 43.

In accordo con lo statement dell’American Heart Association del 2009, un paziente iperteso è definito resistente quando nonostante l’utilizzo di almeno 3 farmaci antiipertensivi a dosaggio pieno incluso un diuretico non raggiunge il target pressorio oppure quando il target pressorio si raggiunge mediante l’utilizzo di almeno 4 farmaci antiipertensivi a dosaggio pieno [Calhoun DA - 2008].



Figura 2 di 43.

Ci sono pochi dati sulla prevalenza dell’ipertensione resistente in quanto la stragrande maggioranza degli studi non riporta il trattamento effettuato. In una recente analisi condotta su 5230 pazienti ipertesi del NHANES 2003-2008, è stato evidenziato che in circa il 9% dei pazienti ipertesi è possibile identificare un’ipertensione resistente al trattamento. Se si considerano solo i pazienti trattati questa prevalenza aumenta al 13% circa [Persell SD - 2011].



Figura 3 di 43.

Nello stesso studio, Persell individuava le caratteristiche demografiche e cliniche che si associavano alla presenza di un’ipertensione resistente e che risultavano essere l’età, la razza, il BMI, la funzione renale (GFR e albuminuria), il diabete mellito e i pregressi eventi cardiovascolari (malattia coronarica, insufficienza cardiaca, ictus).



Figura 4 di 43.

Questi stessi fattori erano confermati da altre coorti [Persell SD - 2011, Cushman WC - 2002, Lloyd-Jones DM - 2002, Lloyd-Jones DM - 2000] che evidenziavano come ulteriori fattori clinico-demografici associati all’ipertensione resistente valori pressori elevati, sesso femminile ipertrofia ventricolare sinistra e l’elevato introito di sale.



Figura 5 di 43.

L’approccio diagnostico all’ipertensione resistente prevede 3 step [Sarafidis PA - 2008]: la prima è la conferma di una reale condizione di ipertensione resistente mediante valutazione e correzione dei fattori di pseudo-resistenza. Il secondo passo riguarda l’identificazione dei fattori che contribuiscono alla resistenza al trattamento antiipertensivo e infine l’ultima fase prevede che siano escluse tutte le possibile cause di ipertensione secondaria.



Figura 6 di 43.

Le possibili cause di pseudo-resistenza possono essere suddivise tra cause dipendenti dal medico e dipendenti dal paziente. Tra le prime sono incluse la misurazione non corretta della pressione arteriosa, il trattamento inadeguato (in termini sia di dosi che di associazioni farmacologiche non appropriate) e l’inerzia clinica che consiste nel mancato aumento delle dosi o del numero dei farmaci nonostante la presenza di un’ipertensione non controllata. Tra le cause dipendenti dal paziente, la principale è sicuramente rappresentata dalla scarsa aderenza del paziente al trattamento prescritto a cui segue l’ipertensione da camice bianco. Infine, la presenza di arterie calcificate difficilmente comprimibili è la causa più frequente di pseudo-resistenza nell’anziano [Sarafidis PA - 2008].



Figura 7 di 43.

Nell’approccio diagnostico all’ipertensione resistente, il secondo punto è rappresentato dalla ricerca di quei fattori che contribuiscono ad un peggiore controllo pressorio. Un aumento dei valori di pressione arteriosa è stato frequentemente descritto in corso di alcune terapie (FANS, simpaticomimetici, terapia steroidea, eritropoietina, ciclosporina, contraccettivi orali), in corso di assunzione di sostanze illecite (cocaina, anfetamine, ecstasy) o successivamente all’abuso di liquirizia, prodotti dietetici (ginseng), alcool e cloruro di sodio [Sarafidis PA - 2008].



Figura 8 di 43.

L’ultimo passo nella diagnosi corretta di ipertensione resistente è quello di escludere altre possibili cause di ipertensione secondaria (alcune più frequenti altre meno comuni) ma che sono tutte associate ad elevati valori di pressione arteriosa [Sarafidis PA - 2008].



Figura 9 di 43.

L’algoritmo diagnostico, pertanto, può essere ricapitolato secondo i seguenti punti:

  1. Escludere la pseudo-resistenza
  2. Identificare e trattare i fattori modificabili che contribuiscono alla resistenza
  3. Sospendere o almeno ridurre le sostanze che interferiscono con l’ipertensione resistente
  4. Individuare le cause di ipertensione secondaria
  5. Ottimizzare il trattamento farmacologico

Individuare lo specialista di riferimento



Figura 10 di 43.

Limitate sono le informazioni disponibili sulla prognosi dell’ipertensione resistente [Calhoun DA 2008]. Infatti, non ci sono studi prospettici che abbiano specificamente valutato il rischio di outcome sfavorevole nei pazienti con ipertensione resistente rispetto all’ipertensione controllata. Tuttavia, come evidente dagli studi nell’ipertensione essenziale, il rischio di infarto miocardico, ictus, scompenso cardiaco e CKD sono direttamente correlati ai livelli di pressione arteriosa. Infine, la prognosi è generalmente più sfavorevole in quanto l’ipertensione resistente è spesso associata ad altri fattori di rischio cardiovascolare, quali diabete, sleep apnea, ipertrofia ventricolare sinistra, malattia renale cronica.



Figura 11 di 43.

In uno studio brasiliano non controllato osservazionale prospettico in 556 pazienti con ipertensione resistente, è stato valutato il ruolo prognostico dell’ABPM nel rifinire il rischio di eventi CV fatali e non fatali [Salles GF - 2008].



Figura 12 di 43.

In questo studio tutti i pazienti erano sottoposti alla misurazione ambulatoriale della pressione arteriosa (ABPM) e i soggetti erano suddivisi in due gruppi: “veri” resistenti (coloro che avevano anche una ABPM alterata) e pazienti con pseudo-resistenza (coloro che avevano valori normali di ABPM, cioè pazienti con ipertensione da camice bianco). L’endpoint dello studio era il tempo al primo evento cardiovascolare fatale o non fatale [Salles GF - 2008].



Figura 13 di 43.

Durante il follow-up (in mediana circa 5 anni) il 35% circa dei pazienti con resistenza vera e il 13% di coloro con ipertensione pseudo-resistente andavano incontro ad un evento cardiovascolare fatale o non fatale. Il rischio di eventi avversi aggiustato per le possibili variabili confondenti nei pazienti resistenti era più che doppio rispetto ai pazienti con pseudo-resistenza. Gli stessi risultati si osservavano quando si considerava come endpoint la mortalità totale o la morte da cause cardiovascolari. Il dato importante da notare è che solo 19 pazienti (3.3%) avevano insufficienza renale; questa informazione è rilevante in quanto l’ipertensione resistente nella popolazione con CKD presenta caratteristiche peculiari e differenti dai pazienti con ipertensione essenziale [Salles GF - 2008].



Figura 14 di 43.

La prevalenza, i fattori associati e la prognosi dell’ipertensione resistente in CKD è stato valutato in uno studio retrospettivo in 300 pazienti incidenti all’ambulatorio di nefrologia con malattia renale cronica nello stadio 2-5 [De Nicola L - 2011].



Figura 15 di 43.

La prevalenza di ipertensione resistente al basale era del 26%. Questa prevalenza si riferiva essenzialmente ai pazienti riferiti per la prima volta all’ambulatorio e quindi la prevalenza risultava sottostimata in quanto la terapia non era ottimizzata. Infatti, durante i primi 6 mesi di riferimento nefrologico la terapia antiipertensiva era incrementata e la prevalenza di ipertensione resistente era incrementata al 38%. Questo aumento corrispondeva ai pazienti che inizialmente erano sottotrattati (meno di 3 farmaci) e non a target in cui il nefrologo aumentava o il dosaggio o il numero dei farmaci o si aggiungeva il diuretico e che ciò nonostante rimanevano fuori target [De Nicola L - 2011].



Figura 16 di 43.

Nel paziente con CKD, i fattori clinico-demografici associati all’ipertensione resistente sono rappresentati dal diabete, dall’ipertrofia ventricolare sinistra, dalla causa di CKD, dalla severità della malattia renale (basso GFR e alta proteinuria) e valori elevati di pressione sistolica e diastolica [De Nicola L - 2011].



Figura 17 di 43.

Quando tutti i fattori erano considerati simultaneamente (analisi multivariata) i soli fattori significativamente associati alla presenza di ipertensione resistente erano diabete e proteinuria [De Nicola L - 2011].



Figura 18 di 43.

Da un punto di vista prognostico, la presenza di ipertensione resistenza si associava ad un maggiore incidenza di morte renale (definita come morte o inizio del trattamento dialitico) durante un follow-up mediano superiore a 3 anni [De Nicola L - 2011].



Figura 19 di 43.

Dopo aggiustamento per i fattori noti di morte renale, l’ipertensione resistente aumentava significativamente il rischio di endpoint renale dell’85% [De Nicola L - 2011].



Figura 20 di 43.

I punti cardine del trattamento dell’ipertensione resistente sono rappresentati dalla sospensione di farmaci o sostanze che influenzano i valori pressori, dalle modificazioni dello stile di vita, dal miglioramento dell’aderenza del paziente alla terapia farmacologica e ovviamente dall’ottimizzazione della terapia farmacologica in termini di terapia diuretica e dose e numero dei farmaci.



Figura 21 di 43.

Per quanto riguarda il primo punto, numerose sono le sostanze farmacologiche e non responsabili di un aumento della pressione arteriosa [Sarafidis PA 2008]. Tra queste quelle maggiormente coinvolte sono i FANS, che aumentano la pressione arteriosa di 5 mm Hg in media, per l’inibizione della produzione di prostaglandine renali e la conseguente ritenzione idrosalina [Johnson AG - 1994], i decongestionanti nasali, i corticosteroidi e i contraccettivi orali.



Figura 22 di 43.

L’obesità è una caratteristica molto frequente dei pazienti con ipertensione resistente. I meccanismi attraverso i quali l’obesità contribuisce agli elevati valori pressori ed interferisce con il trattamento antipertensivo non sono chiaramente riconosciuti. Resistenza all’insulina ed iperinsulinemia, ridotta escrezione di sodio, aumentata attività del sistema simpatico, aumentata sensitività all’aldosterone legata all’adiposità viscerale e la sleep apnea sono tutti fattori implicati come potenziali meccanismi [Sarafidis PA 2008]. Un introito moderato di alcool non influenza i valori pressori. Tuttavia, dosi superiori a 3 drinks al giorno (pari a 84 g di alcool) hanno un effetto ipertensivante dose-dipendente. Nel paziente iperteso l’introito giornaliero di alcool dovrebbe essere limitato a 28 g negli uomini e 14 g nelle donne. [Chobanian AV - 2003]. L’attività fisica indice una riduzione pressoria modesta ma più sostenuta nei pazienti che già ricevono terapia antipertensiva. L’approccio farmacologico più efficace è sicuramente rappresentato dalla riduzione dell’introito di sodio con la dieta. Le linee-guida atuali suggeriscono un in introito dieteico di sodio per un soggetto iperteso <100 mEq/die (equivalenti a 2.4 g di sodio o 6 g di cloruro di sodio).



Figura 23 di 43.

Il ruolo della restrizione sodica sul controllo pressorio in pazienti con ipertensione resistente è stato specificamente studiato in un piccolo studio randomizzato crossover in cui 12 pazienti ricevevano per una settimana una dieta iposodica (50 mEq/die) o ipersodica (250 mEq/die) in presenza di un regime antipertensivo stabile. Dopo un washout di due settimane i pazienti ricevevano l’altro regime dietetico per altri 7 giorni [Pimenta E - 2009].



Figura 24 di 43.

L’effetto antipertensivo della dieta iposodica era molto evidente con una riduzione media della sistolica clinica di 23 mmHg e della diastolica clinica di 9 mmHg [Pimenta - E 2009].



Figura 25 di 43.

Un significativo effetto antipertensivo persisteva nelle 24 ore come dimostrato dai tracciati della pressione arteriosa ambulatoriale (ABPM) [Pimenta E - 2009].



Figura 26 di 43.

Numerosi sono gli accorgimenti da consigliare al paziente per implementare efficacemente la dieta iposodica. L’aderenza a lungo termine (la dieta va effettuata per tutta la vita) sarà tanto maggiore se l’implementazione della dieta a basso contenuto di sale avviene progressivamente nel corso del tempo (3-6 mesi). Questo tempo è necessario affinché  il paziente adegui il proprio gusto alle nuove proprietà organolettiche dei cibi non più coperte dal sale [De Nicola L - 2004].



Figura 27 di 43.

Un’attenta valutazione dell’aderenza del paziente al trattamento antipertensivo è di vitale importanza per almeno due motivi. Primo, poiché la definizione di ipertensione resistente è basata sul numero di farmaci prescritti, un paziente non aderente alle prescrizioni potrebbe essere erroneamente classificato come resistente; secondo, migliorare l’aderenza significa migliorare il controllo pressorio con un minor numero di farmaci e con una spesa minore. Migliorare l’aderenza alla terapia richiede ovviamente un maggiore coinvolgimento del medico, diretto non solo al paziente ma anche ai familiari e finalizzato ad illustrare in maniera chiara l’elevato rischio cardiovascolare associato all’ipertensione resistente e ai vantaggi di una maggiore compliance alla terapia. Domande specifiche da porre al paziente devono riguardare non solo quante volte il paziente non assume i farmaci prescritti ma anche se rispetta gli orari indicati per l’assunzione. In generale, l’aderenza al trattamento peggiora con l’uso di un maggior numero di pillole, la prescrizione di schemi posologici complessi ed eventuali costi aggiuntivi per il paziente. Pertanto, sono da preferire per quanto possibile i farmaci a lunga durata d’azione che consentano la mono-somministrazione. Inoltre, l’aderenza migliora sottoponendo il paziente a visite cliniche più frequenti e rendendolo partecipe dello stato di controllo della sua malattia. Infatti, consigliare al paziente di tenere un diario con le misurazioni domiciliari della pressione arteriosa può migliorare l’aderenza alla terapia farmacologica [Ogedegbe G - 2006].



Figura 28 di 43.

Il quarto punto riguarda l’ottimizzazione della terapia diuretica. Il medico deve effettuare la corretta scelta del tipo di diuretico che deve essere prescritto in base alla funzione renale; infatti, il tiazidico non è più efficace in genere quando i valori di GFR sono inferiori a 40 ml/min/1.73m2 e bisogna utilizzare i diuretici dell’ansa a dosi proporzionali alla funzione renale [De Nicola L - 2004, Moser M - 2006, Wilcox CS - 2002].



Figura 29 di 43.

In particolare, nello stadio 3 di CKD la dose di furosemide è da 2 a 4 volte superiore a quella utilizzata in soggetti con funzione renale normale. Nello stadio 4, la dose è 4-10 volte e nello stadio 5 da 10- a 20 volte superiore. Ovviamente, queste dosi si riferiscono alle dosi di attacco (in presenza di una franca espansione di volume) mentre quelle di mantenimento (quando l’espansione è stata corretta) sono generalmente più basse. Essendo l’efficacia del diuretico dipendente da diversi altri fattori oltre che dalla ridotta funzione renale (es. grado di acidosi, proteinuria, albuminemia), la risposta individuale non è facilmente prevedibile; pertanto, viene consigliato un approccio a dosi crescenti e un monitoraggio quotidiano del peso corporeo al fine di ottenere un calo ponderale tra 0.5 e 1.0 kg/die [De Nicola L -2004].



Figura 30 di 43.

L’utilizzo della terapia diuretica nei pazienti con ipertensione resistente è motivata dalla presenza in tali pazienti di una franca espansione di volume accompagnata ad alterazioni ormonali tipiche (aumento di ANP e BNP e di aldosterone in presenza di una PRA soppressa). Gli elevati livelli di aldosterone giustificano anche l’uso dello spironolattone in tali pazienti [Gaddam KK, - 2008].



Figura 31 di 43.

Una recente analisi sistematica (fine 2010) ha evidenziato la presenza di 6 studi sugli effetti dello spironolattone nell’ipertensione resistente. Di questi uno era retrospettivo, quattro prospettici ed uno era un’analisi secondaria di uno studio randomizzato (ASCOT) [Marrs JC - 2010].



Figura 32 di 43.

In questi sei studi, l’utilizzo di spironolattone ad un dosaggio compreso tra 25 e 50 mg/die determinava una riduzione pressoria media di 22 mmHg per la sistolica e di 10 mmHg per la diastolica. Gli eventi avversi più frequenti erano la ginecomastia (4.7%, riportata in 3 studi), l’iperkaliemia (3.0%, riportata in 3 studi) e l’insufficienza renale acuta (1.1-6.5% in due trials). Nel totale l’incidenza cumulativa di tali effetti era inferiore al 6%. In nessuno studio erano registrati eventi avversi seri (morte o ospedalizzazione) [Marrs JC - 2010].



Figura 33 di 43.

Nel maggio 2011, è stato pubblicato lo studio ASPIRANT che costituisce il primo trial randomizzato e controllato a doppio cieco sugli effetti antiipertensivi dello spironolattone in 117 pazienti con ipertensione resistente. Il farmaco era somministrato al dosaggio di 25 mg/die per 8 settimane in aggiunta alla terapia pre-esistente [Vaclavík J - 2011].



Figura 34 di 43.

Al termine delle 8 settimane dello studio, la pressione arteriosa sistolica (sia misurata in office sia quella ambulatoriale) risultava significativamente ridotta nei pazienti trattati con spironolattone. La diastolica era numericamente ma non significativamente inferiore nel gruppo attivo rispetto al placebo. Non si oservavao eventi avversi durante lo studio; nel gruppo trattato con spironolattone l’aumento di potassio era di 0.3 mEq/L in mediana e il valore massimo di potassiemia registrato era di 5.56 mEq/L. La risposta pressoria allo spironolattone era direttamente correlata al rapporto aldosterone/renina [Vaclavík J - 2011].



Figura 35 di 43.

L’ottimizzazione della terapia farmacologia in corso di ipertensione resistente prevede in prima battuta l’aumento della dose e del numero dei farmaci, utilizzando la massima dose tollerata di ogni singolo farmaco. Dal momento che la ritenzione di sodio è uno dei possibili meccanismi patogenetici dell’ipertensione resistente, un aspetto importante del trattamento è quello di considerare l’effetto sodio-ritentivo associato all’uso dei vasodilatatori.



Figura 36 di 43.

Infatti, le risposte fisiologiche indotte dall’uso dei vasodilatatori sono costituite da un aumento del riassorbimento sodico a livello prossimale, conseguente alla riduzione della pressione arteriosa, e a livello distale, in risposta ad un’attivazione riflessa dell’asse renina-angiotensina-aldosterone. L’effetto finale è quello di una sodio-ritenzione con espansione del volume extracellulare che antagonizza l’effetto antipertensivo di tali farmaci.  viene parzialmente antagonizzato da questi meccanismi di compenso. Questi meccanismi, inizialmente descritti in corso di somministrazione di minoxidil, impongono un adeguato trattamento, sia esso non farmacologico (dieta iposodica) o farmacologico (diuretici), dell’espansione di volume. [De Nicola L - 2004].



Figura 37 di 43.

Un possibile algoritmo terapeutico potrebbe essere quello proposto da Sarafidis & Bakris [Sarafidis PA - 2008].



Figura 38 di 43.

Le nuove prospettive terapeutiche dell’ipertensione resistente includono opzioni farmacologiche e non farmacologiche. Tra le prime ci sono l’inibizione dell’endotelina-1 e la stimolazione dell’ossido nitrico. Tra le seconde, la denervazione simpatica e la stimolazione barorecettoriale. Queste ultime sono oggetto di una differente presentazione nell’ambito di tale corso e quindi non saranno trattate.



Figura 39 di 43.

Il primo studio sugli effetti dell’inibizione dell’endotelina-1 nell’ipertensione resistente è stato pubblicato nel 2009 [Weber MA -2009]. In questo studio è stato valutato l’effetto antipertensivo (sia sulla pressione arteriosa clinica e che ambulatoriale) di un antagonista recettoriale selettivo per il recettore A dell’endotelina-1, Darusentan, in 379 pazienti con ipertensione resistente randomizzati a placebo o a differenti dosi di Darusentan  per 14 settimane. L’effetto antipertensivo era ben evidente sia per la pressione clinica che ambulatoriale e non sembrava essere dose dipendente [Weber MA - 2009].



Figura 40 di 43.

Lo stesso era evidente in un secondo studio randomizzato e controllato più ampio (849 pazienti) in cui il darusentan era confrontato con placebo e guanfacina un alfa-2 agonista ad azione centrale con un meccanismo di azione simile alla clonidina [Bakris GL - 2010]. In particolare, l’effetto antipertensivo era più evidente per la pressione ambulatoriale che non per la clinica (che pur riducendosi più precocemente alla fine dello studio non era significativamente diversa dal placebo).



Figura 41 di 43.

Tuttavia, entrambi gli studi evidenziavano come principale effetto collaterale la comparsa di edemi e/o ritenzione idrosalina, presente nel 27% dei pazienti [Weber MA - 2009].



Figura 42 di 43.

Un’incidenza simile di sodio-ritenzione (28%) era riportata anche nel secondo studio [Bakris GL - 2010], sottolineando, come per altri farmaci vasodilatanti, la necessità del controllo dell’espansione di volume mediante un’efficace terapia diuretica.



Figura 43 di 43.

Un’ultima opzione, che potremmo definire ancora in fase sperimentale, è rappresentata dall’utilizzo di farmaci che aumentano i livelli di ossido nitrico (NO donor) [Oliver JJ - 2010]. Tali farmaci sono rappresentati dai nitrati (isosorbide mononitrato) e dgli inibitori della fosfodiesterasi 5 (sidenafil). Questi farmaci (da soli o in combinazione) sono stati utilizzati in uno studio pilota short-term randomizzato crossover su 6 pazienti con ipertensione resistente. Entrambi i farmaci erano in grado di ridurre acutamente la pressione arteriosa. La loro associazione era ancor più efficace riducendo la sistolica e la diastolica di 26 e 18 mmHg, rispettivamente. Questo studio fornisce una prova della validità del razionale all’utilizzo di NO donor come agenti antipertensivi, ma la loro efficacia richiede conferme in studi più ampi e di maggior durata.



Parole chiave: Ipertensione

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