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Parte 1: Corso FAD sull'ipertensione


Overview: Ipertensione arteriosa e salute pubblica

release pubblicata il  26 agosto 2011 
da Luca De Nicola

Figura 1 di 39.

Oggetto di questa lezione di apertura del Master è l’inquadramento della ipertensione arteriosa come problema di salute pubblica.



Figura 2 di 39.

Le tre caratteristiche principali della ipertensione, ossia l’elevata frequenza, il considerevole impatto su morbilità-mortalità  cardiovascolare e sulla comparsa e progressione del danno renale cronico, e la documentata efficacia preventiva della terapia antipertensiva, giustificano l’alto grado di attenzione e di assorbimento di risorse che l’identificazione e il trattamento dell’ipertensione arteriosa meritano in tutto il mondo.



Figura 3 di 39.

Verifichiamo innanzitutto  i dati internazionali e nazionali di prevalenza dell’ipertensione arteriosa sia in popolazione generale sia nel sottogruppo dei pazienti con nefropatia cronica.



Figura 4 di 39.

E’ ben noto che l’ipertensione arteriosa è un principale fattore di rischio il cui impatto è destinato a crescere ulteriormente a seguito di vari fattori tra i quali l’aumento della vita media e la riduzione della mortalità infantile in vari paesi del mondo. La review sistematica di Kearney et al. ha valutato la Letteratura prodotta sull’argomento dal 1980 al 2002 [Kearney PM, Lancet 2005 [1]]. Gli Autori hanno analizzato la prevalenza dell’ipertensione arteriosa (PA?140/90 mmHg o terapia antiipertensiva in atto) in soggetti adulti (età ?20 anni) nelle diverse regioni del mondo descritte in tabella, e confrontato i dati di prevalenza (standardizzati per età e sesso) del 2000 con una proiezione al 2025 stimata assumendo che la prevalenza per paese, età e sesso non sarebbe variata tra il 2000 ed il 2025.



Figura 5 di 39.

Nel 2000, il 26.4% (95% CI 26·0–26·8) della popolazione  adulta aveva ipertensione arteriosa; in particolare, la prevalenza era simile nei due sessi (in media del 26.6% tra gli uomini [95% CI 26.0–27.2] e 26.1% tra le donne [95% CI 25.5–26.6]). Una maggiore frequenza era evidenziata nel mondo occidentale ed in America Latina.

I dati di proiezione indicavano inoltre un aumento per il 2025 del 9% per gli uomini e del 13% nelle donne a causa dell’aspettato aumento dell’età media nel 2025. In media, quindi, si stima una prevalenza di ipertensione nel 2025 del 29.2% [95% CI 28.8–29.7] (29.0% uomini [95% CI 28.6–29.4] e 29.5% donne [95% CI 29.1–29.9]).



Figura 6 di 39.

In termini di numeri assoluti, si stima che nel 2000 più di un quarto della popolazione adulta nel mondo (un miliardo circa) era iperteso e che tale numero è destinato ad aumentare significativamente nel 2025 (ad un miliardo e mezzo circa).

A questo proposito è interessante notare che sebbene l’ipertensione sia più frequente nei paesi sviluppati che nelle aree in via di sviluppo (37.3% versus 22.9% nel 2000), la più ampia popolazione presente nelle aree meno sviluppate determini un numero assoluto di ipertesi considerevolmente maggiore in queste rispetto ai paesi sviluppati.

Non possiamo quindi che concordare pienamente con le conclusioni degli Autori, ossia che l’ipertensione rappresenta oggi una importante sfida a livello mondiale delle istituzioni deputate alla gestione della salute pubblica e che prevenzione, identificazione e cura di questa condizione debbano ricevere la massima priorità.



Figura 7 di 39.

La validità dell’ipotesi formulata nello studio precedente sulla stretta associazione tra età e ipertensione trova conferma nella analisi dei dati della National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) pubblicata nello stesso periodo da Hajjar e Kotchen [Hajjar I, JAMA 2003 [2]]. In questa analisi si evidenziava come più del 50% dei soggetti con età >60 anni sia affetto da ipertensione e che tale associazione sia indipendente da sesso e razza.



Figura 8 di 39.

Lo stesso studio suggeriva inoltre come, oltre all’invecchiamento della popolazione, anche l’obesità giochi un ruolo determinante. La Tabella evidenzia, infatti, come in ciascuno dei tre periodi di screening del NHANES l’aumento dell’età e del BMI siano i principali determinanti della prevalenza di ipertensione, e che assieme rendano conto di un terzo della prevalenza di questa condizione patologica.



Figura 9 di 39.

Oltre all’età ed il BMI, altro fattore determinante la prevalenza di ipertensione è l’area geografica di residenza della popolazione esaminata, che in linea di massima è rappresentativa del livello economico. Abbiamo già visto nello studio di Kearney che il numero di ipertesi è maggiore nelle aree depresse del mondo verosimilmente a causa della più vasta popolazione residente.

In realtà, è anche possibile ipotizzare un diverso trend dei valori pressori stessi a seconda delle aree geografiche.

Questo studio [Danaei G, Lancet 2011 [3]], di recente pubblicazione ed effettuato su più di 5 milioni di soggetti residenti in circa 200 aree geografiche diverse, mostra perla popolazione mondiale un trend  medio in discesa dei livelli di pressione sistolica negli ultimi trenta anni (1980-2008), 0.8 ed 1.0 mmHg per decade rispettivamente in maschi e femmine. Pertanto,  in media la prevalenza di ipertensione è diminuita sia nei maschi (da 33% a 29%) sia nelle femmine (da 29% a 25%) anche se, come abbiamo già visto, a causa della crescita della popolazione e dell’invecchiamento della popolazione generale, in termini assoluti la malattia ipertensiva è diventata più frequente (da 605 milioni nel 1980 a 978 milioni nel 2008).



Figura 10 di 39.

Ma il dato più importante dello studio è che i trends pressori sono stati differenti a seconda dell’area geografica esaminata: nella figura si evince infatti come per i maschi si sia assistito negli ultimi trenta anni a riduzioni della sistolica di 2-3 mmHg in USA, Europa occidentale, Australia; al contrario, un aumento di 1-3 mmHg è stato osservato in aree depresse (Africa, Oceania, Asia, Caraibi). Risultati non dissimili sono stati ottenuti nelle donne.

Lo studio non analizza le cause del diverso andamento dei livelli pressori e gli Autori non possono che ipotizzare un ruolo causale del  diverso consumo di sale e vegetali, dei diversi atteggiamenti prescrittivi dei farmaci antipertensivi, e del diverso trend di crescita del BMI. Certamente, conclusione rilevante dello studio è la necessità di maggiori interventi nelle aree economiche più depresse.

Altrettanto importante per la nostra  realtà specifica, sono, tuttavia, due osservazioni ancillari, ossia che la riduzione pressoria nelle tre decadi esaminate risultava maggiore in Nord-America rispetto ai paesi Europei, e che, tra i paesi dell’Europa Occidentale, i livelli pressori più alti erano registrati nelle aree più ricche sia per gli uomini sia per le donne.



Figura 11 di 39.

In realtà, una maggiore prevalenza di ipertensione in Europa versus Nord America era già emersa qualche anno fa grazie ai dati  di surveys nazionali condotte negli anni ‘90 [Wolf-Maier K, JAMA 2003 [4]]. Gli autori non attribuivano tali differenze ad un diverso consumo di sale o altri nutrienti, o a differenze nel BMI.



Figura 12 di 39.

Al contrario, dato scoraggiante per noi Europei era la più bassa percentuale di pazienti trattati che verosimilmente contribuiva in misura maggiore al più scarso controllo pressorio.  In particolare, secondo i dati Italiani inseriti nello studio dall’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare (OEC) dell’Istituto Superiore di Sanità, nel corso della survey 1998-2000, meno di un terzo dei pazienti ipertesi era in trattamento (4.300.000/13.500.000).



Figura 13 di 39.

Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito in Italia ad un miglioramento dei livelli pressori.  Questa osservazione deriva dai dati preliminari su 9 regioni (qui evidenziate in blu) della ultima Survey (2008-2011) dell’OEC [Palmieri L, GIC 2010 [5]].

Nei due screening, condotti a distanza di 10 anni l’uno dall’altro, sono stati confrontati i dati provenienti dalle stesse regioni per la fascia di età comune (35-74 anni), nonché per livello socio-economico stabilito in base alla scolarità e diviso in due categorie: basso (elementari e medie inferiori) e medio/alto (medie superiori e laurea). Le strutture per età dei due campioni sono praticamente identiche ed i dati sono pertanto confrontabili direttamente.



Figura 14 di 39.

Qui viene riportata la pressione arteriosa sistolica e diastolica ognuna calcolata come media di due misurazioni successive ottenute con la stessa metodologia standardizzata in entrambi le surveys  (sfigmomanometro a mercurio, al braccio destro).

Tra il 1998 ed il 2008 la pressione arteriosa si è ridotta in media sia negli uomini (- 4/3 mmHg) che nelle donne (- 5/4 mmHg).

Si riduce di conseguenza la prevalenza di ipertesi (PAS ?160 o PAD ?100 o trattati) di più nelle donne (dal 32% al 28%) e meno negli uomini, per i quali almeno un terzo  resta nella condizione di ipertensione (35% vs 34%). Anche i pazienti borderline  (PAS 140-159 mmHg o PAD 90-99 mmHg) si riducono.



Figura 15 di 39.

Si è riscontrato un miglioramento anche considerando il trattamento per ipertensione.

A sinistra gli uomini, a destra le donne, in alto le torte relative all’Osservatorio del 1998 e in basso quelle relative al 2008.

I due spicchi viola per le donne ed i due spicchi verdi per gli uomini indicano la proporzione di persone che hanno pressione arteriosa <140/90 e non sono in trattamento; le prevalenze aumentano significativamente in entrambi i sessi.

Le aree grigie rappresentano le persone ipertese che non sono trattate e che diminuiscono per entrambi i sessi.

I ben trattati (PAS <140 e PAD <90 in azzurro chiaro e viola chiaro) raddoppiano in entrambi i sessi.

Diminuisce la proporzione di donne non adeguatamente trattate (spicchi rossi), mentre resta stabile quella degli uomini (spicchi blu);

Ciò rende merito ai medici di aver ottenuto un miglior controllo tramite il trattamento.

Ma nello stesso tempo, è stata registrata una diminuzione significativa dei valori medi pressori, il che indica che indipendentemente dal trattamento si stanno modificando positivamente anche le abitudini e gli stili di vita.



Figura 16 di 39.

Oltre l’età, il BMI e l’area geografica di residenza, altro fattore determinante lo stato ipertensivo è la malattia renale cronica. Uno dei primi studi a testimoniare il ruolo della nefropatia è l’MDRD che mostrava come la prevalenza di ipertensione nella coorte in basale aumentasse linearmente al ridursi del GFR (approssimativamente, dal 65% al 95% per riduzione del GFR da 85 a 15 mL/min/1.73m2) [Buckalew VM, AJKD 1996 [6]].



Figura 17 di 39.

La stretta relazione tra ridotto GFR ed ipertensione arteriosa è spiegata soprattutto dalla marcata espansione del volume extracellulare, secondaria alla minore capacità ad eliminare il sodio introdotto con la dieta [De Nicola L, AJKD 2004 [7]].



Figura 18 di 39.

La presenza di livelli pressori più elevati in soggetti affetti da nefropatia cronica è stata confermata di recente da questo studio che esaminava il controllo pressorio in 8829 soggetti adulti ipertesi screenati nella National Health and Nutrition Examination Survey 1999–2006, di cui 1651 soggetti  (18.7%) era affetto da CKD stadio III-IV [Plantinga LC, Hypertension 2009 [8]].

La prevalenza di valori pressori ?140/90 era significativamente maggiore nei CKD versus non-CKD (51.5% versus 48.7%); la differenza aumentava considerando i valori ?130/80, specifici  per la CKD (68.8% versus 51.7%).



Figura 19 di 39.

Per quanto riguarda l’Italia, di recente, è stato avviato un progetto di ricerca (studio CARHES, CArdiovascular risk in Renal Patients of the Italian Health Examination Survey) dal Gruppo di Studio sul Trattamento dell’insufficienza renale cronica della Società Italiana di Nefrologia, in collaborazione con l’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri e l’Istituto Superiore di Sanità, che integrando con informazioni specifiche della CKD i dati raccolti nell’ambito della survey dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare/Health Examination Survey (OEC-HES), ha l’obbiettivo di descrivere la prevalenza della CKD e delle complicanze ad essa correlate in un campione rappresentativo della popolazione generale italiana adulta (n=9.020 di età 35-79 anni). I risultati preliminari su circa metà del campione previsto mostrano una prevalenza di CKD minore rispetto ad altre realtà europee ed extra europee (circa 8% simile in uomini e donne) ma confermano la maggiore prevalenza di ipertensione (PA ?140/90 o trattamento) in CKD versus non-CKD. [De Nicola L, GIN 2011 (in stampa)].



Figura 20 di 39.

Assodato quindi che l’ipertensione arteriosa è prevalente in tutto il mondo, con maggiore frequenza negli anziani, nei soggetti sovrappeso, in CKD e in alcure aree geografiche, analizziamo quale sia l’impatto della malattia ipertensiva sul sistema cardiovascolare e sul rene.



Figura 21 di 39.

Si stima che nel 2025 le malattie cardiovascolari risulteranno la principale causa di morte in tutto il mondo, in larga misura a seguito dell’aumento dell’ipertensione arteriosa [Ezzati M, Lancet 2002 [9]].



Figura 22 di 39.

Il ruolo predominante della ipertensione tra i fattori di rischio cardiovascolari è stato confermato dall’INTERHEART, importante studio caso-controllo sui determinanti  dell’infarto acuto, che ha raccolto dati in tutti i paesi del mondo. L’ipertensione aveva un peso indipendente dall’area geografica (PAR, population attributable risk) del 17.9%, ossia rendeva conto di circa il 18% del rischio di primo infarto considerando tutte le diverse aree geografiche del mondo.  Pertanto,  la prevenzione di infarto è basata per una quota parte importante sul controllo pressorio e ciò è valido indipendentemente dall’area geografica di appartenenza [Yusuf S, Lancet 2004 [10]].



Figura 23 di 39.

il ruolo predittivo dell’ipertensione diventa maggiore quando si esamina il rischio di ictus, emorragico o ischemico, seconda causa di morte al mondo. In questo caso, l’ipertensione rappresenta il principale fattore di rischio, ad ancora una volta ciò è vero indipendentemente dall’area geografica esaminata [O’Donnell M, Lancet 2010 [11]].



Figura 24 di 39.

L’ipertensione è pertanto causa principale di mortalità cardiovascolare. Ma il rischio cardiovascolare ad essa correlata si modifica a seconda dei livelli pressori o dell’età ? A questa domanda risponde una metanalisi di 61 studi prospettici su circa 1 milione di soggetti  [Lewington et al, Lancet 2002 [12]].

Nel corso del follow up (12.7 milioni di persone-anni), si osservavano 56 000 morti cardiovascolari, di cui 12 000 per ictus e 34 000 per malattia cardiaca ischemica.

Per ciascuna decade di età, dai 40 agli 80 anni, l’aumento dei livelli pressori era associato con l’aumento di rischio di morte sia per ictus che per infarto senza alcuna evidenza di un effetto soglia fino a valori  di 115/75 mmHg.

In questa diapositiva  si mostra la relazione tra pressione e morte da ictus.



Figura 25 di 39.

Ed i risultati sono simili quando si esamina la relazione tra pressione e morte da cardiopatia ischemica.



Figura 26 di 39.

Il ruolo predittivo sull’endpoint cardiovascolare di anche minime alterazioni pressorie è stato confermato nei 6859 partecipanti al Framingham Heart Study liberi da ipertensione e malattia cardiovascolare all’inizio del follow up [Vasan et al, NEJM 2001 [13]]. Rispetto a livelli ottimali di PA, una PA normale-alta si associava infatti ad un rischio aggiustato di eventi cardiovascolari (fatali e non) di 2.5 (95%CI, 1.6-4.1) nelle donne e di 1.6 (95% CI 1.1-2.2) negli uomini (qui è rappresentata l’incidenza di eventi nel sesso maschile ma una simile relazione è stata trovata anche nelle donne).



Figura 27 di 39.

Per quanto riguarda il rischio “renale”, sappiamo bene che l’ipertensione sia non solo causa di nefropatia ma anche fattore di progressione di danno renale.

In questo studio su 316 675 soggetti adulti, seguiti dal 1964 al 1985, alterazioni pressorie anche di modesta entità si associavano ad un aumentato rischio di ESRD. Cito questo studio tra i tanti disponibili perchè l’osservazione era ottenuta in assenza del fattore confondente di ridotto GFR o di proteinuria/ematuria in basale. Pertanto, questo studio evidenzia il ruolo indipendente da pregressa malattia renale sullo sviluppo di CKD-fase dialitica. [Hsu CY et al, Arch Intern Med 2005 [14]].



Figura 28 di 39.

Abbiamo quindi visto come livelli anche moderati di PA possano aumentare il rischio di eventi cardiorenale. E’ tuttavia importante sottolineare che, come afferma Verdecchia in questa revisione, “non è scontato che la relazione diretta notata negli studi osservazionali si rifletta in una proporzionale riduzione del rischio conseguente ad una variazione pressoria analoga, ma di segno opposto, nel singolo paziente” . Ossia, se in base agli studi osservazionali, più bassi sono i livelli pressori migliore è la prognosi, non è detto che un intervento antiipertensivo “aggressivo” in tutti i pazienti possa esitare sempre in una prognosi migliore [Verdecchia et al., GIC 2010 [15]].



Figura 29 di 39.

Le linee guida nord-americane del Joint National Committee VII (JNC VII) raccomandavano di ridurre la PA al di sotto dei 140/90 mmHg, con obiettivi più ambiziosi (<130/80 mmHg) nei pazienti diabetici ed in quelli con malattia renale cronica. Le linee guida europee sono state sostanzialmente in linea su questa posizione fino al 2009, quando è stato pubblicato un aggiornamento che rivede “al rialzo” gli obiettivi pressori [Mancia G et al., J Hyp 2009 [16]].

Tale aggiornamento consiglia di ridurre la PA al di sotto dei 140/90 mmHg in tutti i pazienti ipertesi (inclusi quelli con diabete, insufficienza renale, precedenti malattie cardiovascolari, ecc.), reputando però le evidenze attuali sull’impatto prognostico di target pressori più ambiziosi non ancora sufficientemente documentate in studi randomizzati di intervento.



Figura 30 di 39.

Una revisione dei target pressori è attualmente in corso anche per i pazienti nefropatici, popolazione caratterizzata da frequenza elevata di DM e malattia cardiovascolare. Come mostrato in diversi studi qui citati, è possibile un “effetto J” in presenza di DM e/o malattia CV per cui ridurre la PA sistolica a meno di un nadir di 115-130 può comportare l’aumento paradosso del rischio di eventi CV. Le future linee guida chiariranno questo punto, dando, verosimilmente, più importanza al singolo paziente (ed alle comorbidità CV come alla presenza o meno di proteinuria) che alla malattia renale in generale: One size does not fit all !



Figura 31 di 39.

Un problema altrettanto importante in CKD è la scarsa predittività  dei livelli pressori misurati in ambulatorio a causa dell’alta frequenza (circa il 40-70%) sia di alterazioni circadiane del profilo pressorio (Non-dipping Status) sia del fenomeno della White Coat Hypertension. Ne deriva che basare l’intensità dell’intervento antipertensivo solo sulla pressione clinica può non essere sufficiente a curare la malattia ipertensiva in CKD. 

Noi abbiamo di recente affrontato tale problema in una coorte di pazienti CKD ipertesi (PA clinica: 146/82 mmHg in media) in trattamento presso 4 Nefrologie Campane, le cui caratteristiche sono riportate in Tabella. Questi pazienti erano trattati con 2.5 farmaci antipertensivi in media per raggiungere il target clinico di <130/80 [Minutolo R et al, AIM 2011 [17]]. 



Figura 32 di 39.

La coorte era seguita nel tempo al fine di mettere in relazione i livelli pressori basali sia clinici che delle 24 ore (ABPM) con l’incidenza di hard endpoints, quali la morte renale (morte del paziente o inizio terapia dialitica) e gli eventi Cv fatali e non. Come è evidente dalla diapositiva , circa metà della popolazione raggiungeva almeno uno dei due endpoints durante il follow up di 4 anni in media.



Figura 33 di 39.

Il risultato principale era che la PA delle 24 ore permetteva una migliore stratificazione del rischio rispetto ai livelli PA misurati in clinica, che risultavano predittivi solo se particolarmente elevati (PA sistolica ?160).

Questi dati, assieme agli studi precedenti di Agarwal,  indicano pertanto la necessità di valutare la malattia ipertensiva in CKD in maniera più approfondita, richiedendo l’ABPM (o in alternativa i profili pressori domiciliari), al fine di ottimizzare la prevenzione del danno cardiorenale in questi pazienti ad alto rischio.  



Figura 34 di 39.

Abbiamo quindi visto che l’ipertensione è un principale fattore di rischio sia per l’elevata frequenza in tutto il mondo che per l’effetto negativo sul sistema cardiovascolare e sul rene e che, verosimilmente, in futuro a noi medici sarà richiesto una personalizzazione della gestione clinica sia in termini di strumenti diagnostici  sia in termini di goals pressori.

A questo punto, non resta che dare le ultime due notizie: la “buona”, ossia che lo status ipertensivo è curabile (…dipende da noi e, ovviamente, dai pazienti stessi) e la “cattiva”, ossia che abbiamo ancora tanta strada da percorrere !!! 



Figura 35 di 39.

Abbiamo già visto assieme come, a testimonianza della possibilità concreta di ridurre la PA nei pazienti ipertesi, Wolf-Maier nel suo lavoro pubblicato su JAMA nel 2003 evidenziava che, nel confronto USA versus Europa (Italia compresa), la minore prevalenza di ipertensione in USA era in gran parte attribuibile alla maggiore frequenza di pazienti trattati .

Ulteriori dati sull’approccio all’ipertensione in USA sono stati riportati recentemente da uno dei massimi esperti del campo, Aram Chobanian  [Chobanian A, NEJM 2009 [18]]. 

Dal grafico si evince come, sebbene in termini assoluti sia aumentato il nro di persone con PA>140/90 da 37 a 42 milioni nel corso delle ultime due decadi (per l’aumento della popolazione e della età), i tassi di controllo siano migliorati (dal 27% al 35%).



Figura 36 di 39.

Certamente un ruolo maggiore è stato giocato dalla ricerca che nel tempo ha reso disponibili farmaci nuovi (e innovativi), più efficaci nelle 24 ore e con minori effetti collaterali. L’ultimo arrivato, l’inibitore diretto della renina (Aliskiren), sta dando risultati molto promettenti in termini sia di efficacia antipertensiva che di protezione d’organo.



Figura 37 di 39.

Tuttavia, nonostante l’ampia messe di dati sull’importanza di ridurre i livelli pressori ed i miglioramenti ottenuti nella terapia antipertensiva, ancora oggi il 28% degli americani ipertesi non sa di esserlo ed il 39% non riceve alcun trattamento .

Inoltre, il 65% continua a presentare valori pressori >140/90  ed il fenomeno è paradossalmente più accentuato nei pazienti a più alto rischio (diabetici, cardiopatici e nefropatici).

Ultimo dato da sottolineare è che dopo i miglioramenti nell’approccio all’ipertensione tra gli anni ’70 e ’80, il trend in positivo si è appiattito nelle ultime due decadi.

Il futuro della gestione dell’ipertensione non può quindi che prevedere  un’intervento preventivo più efficace che dia maggiore risalto alla terapia non farmacologica (riduzione introito di sodio e aumento attività fisica in primis) e coinvolga sempre di più il paziente per aumentare la sua consapevolezza sulla malattia ipertensiva e favorire l’aderenza alla terapia prescritta. Sappiamo infatti che solo una minoranza (10-40%) mantiene una compliance adeguata nel lungo termine.



Figura 38 di 39.

Per quanto riguarda l’ipertensione associata a nefropatia cronica, va anche sottolineata l’importanza del referral allo specialista nefrologo al fine di migliorare il controllo pressorio.

In un recente studio retrospettivo effettuato in 275 pazienti inviati al nostro ambulatorio dai Medici di Medicina Generale per riscontro di malattia renale [De Nicola L, J Nephrology 2011 (in stampa)], abbiamo evidenziato come dopo un anno di trattamento in Nefrologia migliorava il controllo pressorio (da 148 ± 23 / 81±12 mm Hg a 136 ± 18 / 76 ± 11 mm Hg) con l’aumento della prevalenza del target PA<130/80  (dal 14% al 34%).

Il migliorato controllo pressorio a parità di follow up (i pazienti erano stati seguiti dai Medici di Medicina Generale per almeno un anno) era da attribuirsi ad una intensificazione della terapia antipertensiva con aumento del numero di farmaci (da 2.4 ± 1.3 a 3.1± 1.3, p<0.0001), dosi più alte di furosemide e un maggiore uso di politerapia.

Possiamo quindi affermare che l’intensificazione della terapia permette un migliorato controllo della ipertensione anche nei pazienti CKD considerati tra i più resistenti al trattamento.



Figura 39 di 39.

Da quanto abbiamo visto, non possiamo che concludere affermando che l’ipertensione arteriosa resta ad oggi un principale problema di salute pubblica.

Oggi, circa un soggetto adulto su tre della popolazione generale soffre di ipertensione ed è quindi esposto ad un aumentato rischio cardiorenale.

L’obiettivo del programma Health People di aumentare per il 2010 al 68% la prevalenza di ipertesi con PA controllata  NON è stato raggiunto.

La strada da percorrere è pertanto ancora lunga e va percorsa assieme a pazienti ed autorità sanitarie, focalizzando su prevenzione e terapia intensiva e personalizzata che si avvalga anche di strumenti diagnostici  più adeguati (ABPM), soprattutto nei pazienti ad alto rischio (CKD in primis).

Grazie per l’attenzione !



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Parole chiave: Ipertensione arteriosa

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